Iggy Pop a settanta anni suonati, è ancora uno dei simboli di ribellione e di libertà di espressione nella musica rock; la lunga carriera solista non ha fatto altro che confermare il carisma che l’artista di Muskegon aveva gia dimostrato negli Stooges, band fondamentale di un tipo di rock ‘n roll sporco, acido e graffiante poi divenuto riferimento per molte band moderne.
Funhouse è il disco degli Stooges più emblematico ed è la loro seconda raccolta di canzoni inedite, dopo The Stooges, esordio omonimo sottovalutato da critica e pubblico, ma con pezzi fondamentali per la loro discografia come No Fun, 1969 e I wanna be your dog, diretti, innovativi, spregiudicati, irriverenti e anomali per le tendenze del periodo.
Funhouse è stato registrato in circa un mese; John Cale, alla produzione sul primo lavoro, lascia il posto a Don Gallucci; il disco è una conferma: ciò che è stato osato nell’esordio viene proposto con maggiore determinazione in questo lavoro, la sperimentazione incalza, i suoni sono cattivi, l’atteggiamento ritmico è controcorrente per l’epoca: il disco è una novità assoluta, musicalmente parlando; ciò lo porta in un primo momento ad essere sottovalutato, lasciando al tempo il compito di consacrarlo a masterpiece del genere.
Funhouse ha, come il precedente album, un forte sapore psichedelico; la band di Iggy e dei fratelli Asheton sembrano essere la coda graffiante della famosa “estate dell’amore” californiana, sospesi tra un’originalità che li porta ad essere padrini del proto-punk e la versione più dura e nevrotica, ma altrettanto superba, dei Doors. Sarà una coincidenza, ma come narra la storia del rock, il soprannome di Iggy era “Iguana” (gli Iguanas erano la sua vecchia band) mentre Jim Morrison era il re Lucertola (“io sono il re lucertola e posso ogni cosa” sono i versi conclusivi di Not to touch the earth da Waiting for the sun dei Doors); quindi ci sono loro due tra i simboli carismatici di quegli anni, due animali da palcoscenico, capaci assieme alle loro band, di comunicare al pubblico l’essenza dell’essere rock, con una modalità talentuosa e irriverente, ma spettacolare, che difficilmente ad altri è stato possibile ricreare.
Down on the streets e Loose partono violente ed annunciano che la rotta intrapresa con l’omonimo lavoro del 1969 non è cambiata, anzi, come già detto, viene approfondita con determinazione; il suono e la struttura delle composizioni si portano avanti nel tempo; all’interno di esse si nota un impianto instabile, caotico e nervoso, quasi una forma di protesta, una volontà di distaccarsi dallo scenario musicale del tempo; un approccio che sarà poi sviluppato e approfondito nella seconda parte del decennio da altre formazioni; siamo di fronte alla genesi del garage moderno, l’hardcore e del punk rock che tutti conosciamo.
In T.v. Eye la ritmica è nervosa e veloce, il chitarrismo di Ron Asheton impregna il pezzo di un’energia pazzesca, graffiante: è con questo approccio violento ma coinvolgente che si conclude la prima “vulcanica” parte del disco.
E’ Dirt, il capolavoro dell’album, il ponte tra lo stile rivoluzionario ma pur sempre coerente della prima parte dell’album e la sperimentazione caotica e incontrollata della seconda parte; un blues lento e fuori dagli schemi, con ritmica incalzante, che si disegna nella sua intensità su un arco temporale di sette minuti. E’ una tregua tra il primo e il secondo tempo dell’album (quasi a segnare le due facciate del disco), ma basta da sola a dimostrare la qualità di questo Fun house. Poi … si riparte con la discesa all’inferno …
1970 è rabbiosa, c’è il caos, è graffiante quanto basta per amalgamarsi al cantato e al grido “malato” dell’Iguana Iggy Pop; il finale, sorprendente, è dominato dal sassofono di Steven MacKay, rimasto noto negli anni proprio per essere stato ingaggiato da Iggy per questo secondo album degli Stooges.
Con la titletrack e la finale L.A. Blues si va oltre il prevedibile: il delirio musicale sostituisce il caos controllato dei primi pezzi dell’album. Sul brano che da il titolo all’album tra chitarre graffianti e ritmica impazzita si innesta magistralmente il sax di MacKay che dona al pezzo uno spessore unico. Sul brano che chiude l’album la band esplode invece in un turbine di suoni potenti ed incontrollati, la pazzia musicale è compiuta: L.A. Blues è un titolo disorientante, il blues è un’altra cosa, l’inferno musicale è vicino: gli Stooges con la loro energia sonora lo hanno trovato.
Questo è un album di culto, un album non per tutti: è un lavoro per rockers aperti all’ascolto oltre le regole conosciute: ma parliamo di rock n’ roll allo stato puro. E’ un album che si evolve pezzo dopo pezzo, quasi a segnare un percorso ed una volontà precisa di passare oltre, sfidando le tendenze dell’epoca. Fun House è una sfida di ritorno vinta di nuovo da Iggy e compagni. Sono stati capaci di rielaborare in maniera personalissima la vena psichedelica anni sessanta, offrendo ad essa la strada giusta per sopravvivere alle rivoluzioni stilistiche degli anni settanta e dei mostri sacri del rock classico quali Led Zeppelin, Pink Floyd e via dicendo, risorgendo in nuove forme sonore tra gli anni ottanta e novanta.
Quando oggi si sente parlare di band che riescono a dilatare il loro concetto di rock verso sentieri nuovi e quasi in controtendenza, è impossibile non pensare al ruolo che gli Stooges con questo album hanno avuto nella lifetime del rock.
Fun House è il manifesto, è il testamento sonoro degli Stooges, la loro attitudine a non scendere a compromessi, ma è anche la dimostrazione, attualissima, che nel rock, nulla è scontato, ma tutto è possibile, l’importante è aver il coraggio di rompere gli schemi.

- Down on the Street – 3:43
- Loose – 3:34
- T.V. Eye – 4:17
- Dirt – 7:03
- 1970 – 5:15
- Fun House – 7:47
- L.A. Blues – 4:57